Mastro Birraio Santa Lucia di Piave 2016 il resoconto di Chiara Andreola

Matteo di Croce di Malto

Anche quest’anno, come in molti già saprete, sono in prima linea con la Fiera della birra artigianale di Santa Lucia di Piave; che quest’anno peraltro ha proposto già dal primo weekend diversi birrifici a me nuovi.

Davide e Marco del Diciotto Zerouno

Per quanto non sia il primo che ho conosciuto, mi è venuto spontaneo iniziare con il Diciotto Zerouno: perché se io con questo post timbro il cartellino di inizio orario di lavoro, il nome dell’attività avviata da Marco e Davide in quel di Oleggio Castello è invece ispirata all’orario in cui timbrano per l’uscita dai rispettivi uffici e possono (finalmente) dedicarsi all’arte brassicola. Un fisioterapista e un consulente informatico hanno così avviato la loro attività nel 2014 in una cascina ristrutturata, dando anche un tocco di “colore locale” al tutto.

Il loro repertorio copre diversi stili – ed hanno pure insistito per farmelo assaggiare tutto, ‘sti due poco di buono. Portabandiera della casa è la bohemian pilsner Caraibi, “aiutata” dall’acqua particolarmente dolce della zona: una birra semplice, pulita e aderente allo stile, con un tocco di personalità dato dall’aroma floreale del luppolo Saaz particolarmente intenso. Leggermente meno corposa e meno amara sul finale rispetto alle pils ceche, caratteristiche che, almeno al palato italiano, contribuiscono a renderla ancor più facile a bersi. Sempre sulla stessa linea di “beverinità” troviamo la Flamingo, una american wheat pensata per le calde giornate estive, con aromi tra il pompelmo e la frutta tropicale dati dal cascade e dal galaxy; e la weizen Avorio (nome provvisorio, hanno specificato, ci stanno ancora lavorando…), dalla schiuma ben persistente e dagli aromi di banana come da manuale.

Venendo a qualcosa di un po’ più complesso troviamo la saison Ocra, speziata con pepe rosa, coriandolo e scorza d’arancia. Interessante qui è soprattutto l’equilibrio dell’insieme, che la fa risultare una birra morbidissima e dalla speziatura delicata e rinfrescante, e grazie anche al finale leggermente acidulo non lascia alcuna persistenza “pungente”. Più pungente – almeno per i miei gusti – ho invece trovato la apa Ruggine, che alla luppolatura americana abbastanza intensa unisce la scorza d’arancia amara, risultando sia al palato che nel finale di un amaro citrico ben pronunciato e appunto “pungente”. Forse troppo per i miei gusti, ma sicuramente fa la felicità di chi ama questi sapori (chiedere a Enrico per relazione dettagliata).

Personalmente ho apprezzato di più la dark strong ale Granata, dall’aroma fruttato – dal melone, alla papaya, all’ananas, potete sentirci un po’ quello che volete – dato dal magnum (a cui si aggiunge il willamette). Il corpo è decisamente dolce, tra il biscotto e il caramello, ma senza risultare stucchevole – tanto è vero che non lascia alcun retrogusto zuccheroso, ma chiude in maniera più secca di quanto ci si potrebbe aspettare per una birra del genere. Forse la meglio riuscita dal punto di vista tecnico è la Caraibi, ma questa è quella che più mi è piaciuta (ma si sa, i gusti sono gusti).

Una nota di merito, infine, ai due ceffi che vedete in foto: perché, se parte del lavoro del birraio è anche quella di saper accogliere l’avventore, lo sanno fare con passione ed entusiasmo. E qui me la sento di concludere con una loro chicca sul tema dei gusti personali: “Le birre sono come figli per noi, non è che ce n’è uno che ami più degli altri….però a qualcuno fai fare ingegneria, qualcun altro lo mandi a zappare i campi!”.

Elena e Raimondo di Calibro 22

Proseguo con i birrifici nuovi – almeno per me, e alcuni anche per la Fiera. Il primo che ho visitato è il Calibro 22 di Cavriglia (Arezzo), così chiamato “perché è una pistola di piccolo calibro: noi siamo piccolini”, hanno spiegato Raimondo ed Elena.

In effetti sono agli inizi, avendo aperto lo scorso giugno; ma contano comunque un discreto repertorio con cinque birre. La portabandiera della casa è la One Shot One Kill, una session ipa (4,2 gradi alcolici, per lunghe bevute) dalla gradevole luppolatura tra il floreale e l’agrumato, corpo leggero, e ben attenuata e dissetante.

C’è poi la apa CCCP, acronimo dei luppoli utilizzati (Cascade, Columbus, Centennial e Palisade: ho voluto fare l’acculturata facendo notare a Raimondo che la sigla in questione è in cirillico per cui in alfabeto latino sarebbe SSSR e l’acronimo non funziona più, ma mi ha zittita perché già lo sapeva); la bitter JB Fletcher; la pale ale Santa Barbara e la mild Dark Kiss, spillata a pompa per l’occasione.

In generale, una filosofia di birre semplici e pulite, di bassa gradazione, facile bevuta e senza aromi né sapori estremi, aderenti ai rispettivi stili.

Mi sono poi tolta la curiosità di assaggiare finalmente la Masalabir del birrificio Hibu, nome noto nel panorama brassicolo italiano con nove anni di attività e una trentina di birre all’attivo, ma che non avevo mai avuto occasione di conoscere personalmente. Trattasi di una Ale aromatizzata ispirandosi al Masala, miscela di spezie usata in Nepal variabile a seconda dell’uso che se ne fa: tra le tante si trovano la curcuma, la cannella, il cardamomo, lo zenzero, i chiodi di garofano e il pepe.

Il risultato è appunto una birra in cui le spezie hanno una presenza poderosa, che ad alcuni palati potrebbe forse risultare eccessiva; la consiglierei agli amanti di saison e affini, che troverebbero in questa – che rimane una birra fresca e profumata – una speziatura diversa ed originale.

Da menzionare è poi il fatto che il ricavato della vendita della Masalabir – a “tiratura limitata” – sarà devoluto ad un progetto umanitario ideato dall’alpinista e medico Annalisa Fioretti, che trovandosi in Nepal durante il terremoto ha voluto dare seguito ai primi soccorsi mettendo in piedi un progetto umanitario a lungo termine. Insomma, bevi e fai del bene.

Altra nuova conoscenza è stata il Birrificio della Ghironda, dalla provincia di Bergamo, “in proprio” dallo scorso luglio dopo sei anni di beerfirm.

Il repertorio – dato che alla musica si ispirano i nostri – è vasto, dalla alta alla bassa fermentazione: si va dalla tripel 3/8, alla bianche Aromatis, alla pils Ghirò, alla Ipa Mellis.

Su consiglio del ragazzo allo stand ho provato la Rubis, una dubbel: classica belga di questo stile, ben mielosa al naso, con toni di zucchero caramellato in bocca.

Ha comunque il merito di non essere stucchevole, grazie ad una leggera nota amara sul finale.

Da ultimo (ma non per importanza) il Sensolibero, il cui slogan è “Bevi ciò che sei”: loro filosofia, come testimoniato anche dalla grafica che rappresenta in forma di bicchiere varie popolazioni del mondo, è fare birre semplici e aderenti ai rispettivi stili, ma che nella diversità di questi stili consentano a ciascuno di trovare la “sua birra” e di esprimersi. Su consiglio dei gentili signori allo stand ho provato la loro ultima nata, la Airtime session ipa – pare essere uno stile gettonato, dopo il l’epoca d’oro delle Ipa più estreme. In effetti si tratta di una birra semplice e che è ciò che dichiara di essere: aroma esotico, corpo leggero e rinfrescante, con un finale secco e di un gradevole amaro agrumato.

Il Croce di Malto esibiva ad esempio la Cabossa, una chocolate stout con fave di cacao spillata a pompa. Al naso spiccano i profumi delle fave tostate, che accompagnano anche il resto della bevuta in cui si ritrovano anche i toni del caffè; la tostatura rimane comunque la nota dominante, con una persistenza discretamente lunga nonostante il corpo non particolarmente robusto.

Una birra che nel complesso ho apprezzato, e che conferma le opinioni positive che già ho espresso più di una volta sul Croce di Malto.

Anita, Chiara e Marco

Opinioni positive che del resto ho sempre avuto anche sul Birrificio di Cagliari, per quanto nel tempo l’abbia variata – se inizialmente avevo apprezzato in particolare la Figu Morisca al fico d’India, ora la trovo invece troppo dolce per i miei gusti.

Bella sorpresa è invece stata la Mutta Affumiada, una lager ispirata alle rauch tedesche, ma con quel tocco di legame col territorio dato dalla presenza delle bacche di mirto.

C’è da dire che personalmente amo le rauch, per cui, presentandomi una birra ispirata a queste, Marco è cascato bene già in partenza; ma al di là di questo ho apprezzato la leggera nota balsamica data dal mirto sul finale, che pur non andando ad imporsi sull’affumicato nel corpo, fa sì che la gola alla fine non risulti “riarsa” – ma al contrario discretamente “pulita” – come a volte accade con certe rauch particolarmente spinte.

Ottima impressione anche per quanto riguarda la Berla Nera della Brasseria Alpina, una oatmeal stout, questa volta aromatizzata alla liquirizia di montagna (in realtà si tratta della radice di una felce, il polypodium vulgare detto infatti “falsa liquirizia”). Già l’avena conferisce una notevole morbidezza; e questa ben si coniuga con la delicatezza della liquirizia di montagna, ben meno forte della liquirizia propriamente detta, che non va quindi a sovrapporsi ma ad armonizzarsi con il tostato del corpo dando – anche in questo caso – un tocco balsamico.

Piacevole riscoperta è stata poi la Summer del Jeb, che non bevevo da tempo: non ricordavo una tale rosa di profumi floreali, intensi ma allo stesso tempo delicati ed armonici, che lasciano poi spazio ad un corpo leggero e fresco che chiude sui toni amarognoli dell’agrume.

Nota di merito anche alla birraia Chiara Baù che, come vedete nella foto, oltre a spillare birra ed accogliere gli avventori non si tira indietro nemmeno quando c’è da essere all’altezza della situazione – letteralmente – per allestire lo stand.

Ultima novità l’ho provata da L’Inconsueto, che ha portato quest’anno la sua Belgian Strong Ale: risaltano subito in forze i toni di miele e caramello, che fanno il paio con il corpo maltato ben pieno – maris otter, mi è stato riferito – ed una chiusura in cui continua a dominare la componente dolce e anche una lieve nota alcolica – lo zucchero scuro caramellato fa evidentemente il suo mestiere. Per gli amanti delle birre belghe “toste”, patiti del luppolo astenersi.

Naturalmente non posso non nominare gli altri, da cui ho ribevuto con piacere le birre che già avevo apprezzato: la white ipa Sirena del Della Granda e la Kalaveras di Terre d’Acquaviva, la Mummia di Montegioco – che ho per la prima volta provato alla spina, trovandola più morbida rispetto a quella in bottiglia -, la Deep Underground di Opperbacco: per concludere il quadro di un weekend in cui la qualità media delle birre che ho provato è stata più che soddisfacente.

Nel weekend dei birrifici triveneti ne ho trovati diversi che si sono dilettati a sperimentare, vuoi “sfidando” il fuori stile, vuoi semplicemente provando qualcosa che non avevano mai provato prima. Anche per sperimentare però, come direbbero i friulani, “al ul mistir” (che tradotto letteralmente suonerebbe qualcosa come “ci vuole mestiere”, ossia “bisogna saperlo fare”, “ci vuole abilità”): ma devo dire di aver visto qualche risultato interessante.

Parto da Mr Sez, conoscenza a me ben nota, che si è cimentato in una cascadian dark ale in monoluppolo jarrillo ancora innominata.

Complice la spillatura a pompa, già la schiuma era “buona” – sia per la consistenza, sia per il sapore tostato che ho colto “addentandola” -; e anche il monoluppolo fa il suo lavoro conferendo un aroma deciso, tra l’agrumato e la pera, che se la gioca con i toni di malto tostato e caffè. Sul finale ho percepito una leggera nota di liquirizia, prima di chiudere con un amaro abbastanza netto. Nel complesso una birra che ho apprezzato, e che pur tirando in ballo sapori forti non risulta eccessiva.

Un altro che ha voluto sperimentare è stato Villa Chazil con la sua Strar-ipa, una (dichiaratamente) “fuori stile” definita come “belgian ipa”. Ai tre luppoli americani coltivati nel luppolaio di Nespoledo – willaimette, cascade e chinhook – è infatti stato unito un lievito belga, che dà una ben percepibile nota speziata al naso insieme ad un amaro floreale del willaimette, e zucchero candito, che contribuisce a rendere il corpo nettamente più dolce delle ipa canoniche esaltando la parte maltata.

Anche il finale, di un amaro resinoso, quasi di pino, in cui risalta il chinhook, mi ha ricordato di più le birre continentali che quelle d’oltreoceano: ragion per cui, discutendo con Lucio, ho osservato che – per quanto sia una birra che incontra i gusti di chi non ama né gli eccessi agrumati né quelli amari di certe ipa – non la inquadrerei in questo stile. Cosa che, del resto, non era nemmeno del tutto nelle intenzioni.

Un altro birrificio che si è divertito a lanciarsi in nuove avventure non con gli stili ma usando luppoli a km zero è il Bradipongo con la pils Franzisca, con luppolo Perle fresco e in fiore coltivato da ormai una decina d’anni sulle pendici del Grappa e orzo dal padovano. Ammetto che inizialmente mi aveva lasciata perplessa, perché il luppolo si sentiva ben poco ed era viceversa abbastanza pungente l’odore del lievito; la temperatura leggermente più alta ha però riequilibrato le sorti della birra, facendo riemergere un pur lieve aroma tra l’erbaceo e lo speziato del luppolo, e rendendo maggior giustizia anche alla pienezza del cereale al palato.

Rimane comunque del tutto peculiare nel panorama delle pils, meno aromatica e più “grezza” sotto il profilo del cereale – o almeno così l’ho percepita io – : peraltro Anna mi ha confermato che l’accoglienza della nuova pils al locale è stata molto buona, a conferma dell’interesse per le materie prime locali – oltre che del fatto che è evidentemente una birra che piace.

Al di là delle mie personali perplessità iniziali sulla Franzisca, il Bradipongo è comunque ormai da tempo un caposaldo del panorama brassicolo veneto, forte anche dei numerosi riconoscimenti ricevuti – l’ultimo da Slow Food per la BradIpa -; e sono certa che anche in futuro Anna e Andrea non mancheranno di affinare ed ampliare ancora la loro produzione.

In fase sperimentale – nel senso che i birrai dicono di volerla ancora “aggiustare” – è poi la Cream Ale di Camerini – per ora battezzata “Scoppiettante”, ma il nome non è definitivo -, in cui sia al naso che al palato risulta ben presente la dolcezza del mais di Maranello. Per quanto l’aroma possa far presagire una birra che sconfina nello zuccheroso, il corpo nel complesso non è squilibrato nonostante la notevole presenza del cereale; e anche il finale, per quanto rimanga sui toni dolci del mais, non sconfina nello stucchevole.

Decisamente beverina e fresca, per quanto tutt’altro che secca. Attendo comunque futuri sviluppi, peraltro già annunciati, che potrebbero risultare interessanti; cosa che del resto vale anche per Villa Chazil, che ha annunciato l’arrivo di una milk stout con fave di cacao (che aspetto al varco).

Altra sperimentazione che ho provato è la Steel Rose di Baracca Beer, in cui ad una base weizen sono state aggiunte in fermentazione delle ciliegie selvatiche.

La lavagnetta la definiva come “fruit sour”, ma chi si aspetta di trovarvi sapori acidi o profumi intensi di ciliegia probabilmente non troverà ciò che cerca: non solo la parte della frutta è molto delicata, ma anche la componente acida è quasi del tutto assente, tanto che all’aroma il connubio tra queste componenti più quella del frumento risulta in un profumo quasi floreale.

Al corpo risalta bene il frumento, che ho trovato sposarsi bene con la dolcezza leggera della ciliegia: e nel complesso rimane infatti una birra dolce, fresca e beverina nonostante i sette gradi alcolici, piacevole, e ben distante da quella che un purista definirebbe una fruit sour.

Certo discutere di fuori stili o di sperimentazioni è sempre terreno spinoso, per cui – al di là del dire che le ho bevute volentieri, e rilevare eventuali aspetti che mi hanno sorpresa o lasciata perplessa – non mi dilungo nella diatriba “famolo strano sì, famolo strano no” o “luppoli locali sì, luppoli locali no”, che meriterebbe altre sedi ed altre voci.

E’ difficile trovare un filo conduttore a questa seconda parte, per cui me la sbrigo così. Inizio da una nuova conoscenza, il beerfirm Salgaro di Campodarsego, in attività da un anno e mezzo, la cui filosofia di lavoro è puntare alla facile bevibilità.

Almeno per le due birre che hanno all’attivo – la light ipa New England e la red ale Rossa Intrigante – direi che ci sono riusciti: la seconda in particolare, quella che ho assaggiato, ha peraltro la peculiarità di unire un lievito belga con relativi aromi speziati al caramello della maltatura bock e ai luppoli inglesi Admiral e East Kent Golding, creando un curioso gioco tra le tre componenti.

Vecchia conoscenza di Santa Lucia, ma nuova per me, è il birrificio Conense.

Tra le tante ho provato la Milkshake, definita come Imperial Vanilla Milk Stout – e anche qui potremmo aprire un dibattito sul proliferare delle categorie, ma sorvoliamo – spillata a pompa.

Ben marcato il caffè all’aroma, lascia trasparire una lieve vaniglia soltanto in chiusura, rifuggendo da soluzioni troppo dolci: è stato interessante peraltro farsi raccontare dai ragazzi come hanno lavorato i baccelli – pelandoli uno ad uno – per ottenere l’effetto desiderato, con ammirevole dedizione al lavoro…

Ho avuto poi modo di fermarmi con un po’ più di calma da Borderline, peraltro fresco di premio Slow Food per la sua Ipa Simcoe, Robust Poter e Kolsch. Ho provato per prima la Celebration Pale Ale, brassata per il primo anniversario del birrificio, con fiocchi di avena e avena maltata: se all’aroma risalta bene l’agrumato del luppolo citra (come del resto il nome stesso dice) il corpo è tutt’altro che pungente, grazie anche alla nota di morbidezza dell’avena, e chiude con un amaro discreto che non cancella la componente maltata. Su tutt’altro tono la ipa London Docklands, una “vera ipa inglese” dallo spiccato amaro resinoso, con in più una lieve nota di tostato percepibile al palato. Due birre che, pur nelle loro peculiarità, qualificherei come pulite, senza eccessi – nemmeno per l’amaro della London Docklands – e ben costruite.

Spendo due parole anche per la Apa di Benaco 70, in edizione limitata, che ho avuto modo di riprovare dopo Rimini: questa volta ho apprezzato assai meglio il dry hopping con il luppolo Simcoe, che conferisce profumi di frutta esotica per un risultato finale fresco e dall’amaro meno pronunciato di altre dello stesso stile. Auguri peraltro a Erica e Riccardo, che hanno festeggiato proprio a Santa Lucia i tre anni di attività del birrificio; e di come si siano trovati a far nascere praticamente in contemporanea un birrificio e un figlio, fatevelo raccontare da loro (se vogliono).

Da ultimo, un appunto sulla scotch ale Winternest di Luckybrews: non solo perché è sempre un piacere, con i suoi forti aromi e sapori torbati e bassa carbonatazione (complice la spillatura a pompa), ma anche per il delizioso connubio con i tartufi al cioccolato fondente de La Bottega del Dolce, che ha saputo unire in maniera encomiabile i due sapori facendo sì – dote rara – che i due non si sovrastassero l’un l’altro.

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Informazioni su Chiara Andreola 47 Articoli
Veneta di nascita e friulana d'adozione, dopo la scuola di giornalismo a Milano ho lavorato a Roma e Bruxelles. Approdata a Udine per amore, qui è nata la mia passione per la birra artigianale. E non smetto di coltivarla