La lunga saga delle accise

Non sono passati due giorni dalla notizia della riduzione dell’accisa sulle birre, e già si sprecano i commenti tra l’ironico, il cinico e il deluso: ma come, da 3,04 a 3,02 euro per grado plato per ettolitro?

In effetti, date le cifre in questione, pare un po’ una presa in giro. Tanto che tra i birrai c’è chi si sbizzarrisce a quantificare il risparmio in poche centinaia di euro l’anno, concludendo con un “Che bello, me ne mancano solo 9.700 per arrivare a comprare il fermentatore nuovo”.

C’è poi chi, con meno ironia ma più realpolitik, punta il dito contro le pressioni esercitate dai grandi dell’industria contro l’applicazione dell’accisa differenziata; che ha fatto sì che si arrivasse ad una misura puramente simbolica, in un gattopardesco cambiare tutto per non cambiare nulla.

Bisogna dire in effetti che le premesse da cui si era partiti più di un anno fa erano di ben altra taratura: la proposta di legge 3344 del 5 ottobre 2015, presentata su iniziativa di quasi una cinquantina di deputati (Pd in questo caso, ma è bene evitare polemiche politiche ricordando che interessamento in questo senso è arrivato anche da altri partiti, M5S in particolare) prevedeva infatti una riduzione del 50% dell’accisa per chi produce fino a 5000 hl l’anno (buona parte dei micro-birrifici, insomma), del 40% fino a 10.000 (e già qui si contano sulle dita di una mano quelli che rimarrebbero fuori), del 30% fino a 20.000 ettolitri, e via così, fissando a 50.000 il limite massimo per beneficiare della riduzione dell’accisa.

L’impatto della misura era stato valutato in un milione di euro annui, da coprirsi “mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2015-2017, nell’ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2015, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo Ministero” (e qui vado sulla fiducia in merito al fatto che avessero davvero capito come coprirlo, perché questa dicitura è piuttosto oscura per chiunque non conosca in funzionamento di questi fondi). Inoltre, cosa non secondaria, la proposta di legge prevedeva che la tassazione venisse determinata “dalla birra immessa al consumo esclusivamente sulla base dei dati giornalieri contenuti nel registro di magazzino, nel quale si assumono in carico il prodotto finito in fase di condizionamento, il prodotto andato perduto, nonché i quantitativi estratti giornalmente per l’immissione in consumo diretta ovvero tramite la vendita ad altre imprese”: in altri termini, le tasse si sarebbero pagate non più sul mosto uscito dal conta-litri e in anticipo, ma sulla birra effettivamente resa disponibile per il consumo una volta arrivata in magazzino. Tenuto conto dei problemi di cassa che l’attuale sistema può creare, un cambiamento di notevole importanza.

Nel frattempo sono poi successe altre cose, su tutte l’approvazione della definizione legislativa di birra (e birrificio) artigianale; che non aveva però appunto toccato la questione accise, pur essendo stata presentata come primo passo per arrivare a questo traguardo. Un emendamento al bilancio era arrivato anche un paio di settimane fa, a firma di Giuditta Pini (Pd) insieme ad esponenti di Lega, Ap e Fi, che proponeva un’accisa di 2,86 euro per grado plato per ettolitro; e un’altro sempre degli stessi firmatari proponeva una riduzione del 30% per i micro-birrifici. Si è poi arrivati alla fine a questa riduzione del tutto simbolica, che il sottosegretario Baretta ha però ricondotto alla volontà di “mandare un segnale al settore” e assicurando – come sempre si fa in questi casi, verrebbe da dire – la disponibilità a riconsiderare al più presto le esigenze dei produttori, “possibilmente già in seconda lettura al Senato”.

Ora, per carità: chiaro che anche poche centinaia di euro all’anno risparmiati possono fare comodo, ma una giusta via di mezzo tra il “benaltrismo” (secondo il quale qualsiasi misura è inutile perché “ci vorrebbe ben altro”) e l’accettare qualunque cosa si può pure trovare, se non altro per portare l’attenzione sulle questioni che davvero possono fare la differenza: nella fattispecie – come molti hanno notato – la possibilità di pagare le accise sulla birra immessa alla vendita e non sul mosto, le agevolazioni che consentano di assumere più facilmente dipendenti sia sotto il profilo burocratico che sotto quello fiscale, e semplificazioni tali da consentire di non perdere quantità ingenti di tempo e denaro tra scartoffie e uffici vari (c’è qualche birraio che mi ha riferito di autentiche vie crucis tra Agenzia delle Dogane, Camere di Commercio e affini).

Senza dimenticare la questione della mancata accisa sul vino, che è bene venga posta non come mera ritorsione come richiesta di equità: basti dire che ad esempio la Francia, Paese vinicolo tanto e più di noi, applica – come verificabile sul sito delle dogane del governo francese – una tassazione di 3,77 euro per ettolitro al vino tranquillo e di 9,33 per quello frizzante. Se Oltralpe siano le famigerate “lobby del vino” ad essere meno potenti, o la volontà politica ad essere più forte, non so dirlo; fatto sta che ad una qualche forma di partecipazione al carico fiscale, pur minima, si è arrivati, anche in un Paese in cui il settore vinicolo è considerato cruciale. C’è da dire, per completezza d’informazione, che la Francia applica alla birra una tassazione di 7,41 euro per grado alcolico per ettolitro alle birre che superano i 2,8 gradi alcolici (sostanzialmente tutte insomma): ponendo pertanto il classico caso di una birra di 5 gradi otteniamo 37,05 euro a ettolitro, che potremmo mettere a confronto con un altrettanto classico (per quanto ottimistico) 12 plato che pagherebbe 36,24 euro. Cifre non direttamente confrontabili, ma stiamo in ogni caso parlando di una tassazione non significativamente diversa.

Smontato quindi anche il mito del “pagare tutti per pagare di meno”? Semplicistico dirlo, perché è un ragionamento che dovrebbe essere fatto nel quadro della fiscalità generale – dato che non sono solo vino e birra a contribuire alle casse dell’erario. Però tutta la vicenda pone alcune serie questioni di riflessione: dato che un anno (e più, dato che questione non era nuova) di discussione ha portato ad una misura che appare essere simbolica, che si vuol fare affinché non sia stato tempo perso? E la “potenza” della fantomatiche “lobby” (industria birraria o produttori vinicoli che siano) fino a che punto è lo specchietto per le allodole di una mancata volontà politica di intervenire, visto che altrove lo si è fatto?

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Informazioni su Chiara Andreola 48 Articoli
Veneta di nascita e friulana d'adozione, dopo la scuola di giornalismo a Milano ho lavorato a Roma e Bruxelles. Approdata a Udine per amore, qui è nata la mia passione per la birra artigianale. E non smetto di coltivarla