Birra analcolica, tra “eresia” e opportunità

In questi giorni si sono susseguite una serie di notizie riguardanti la birra analcolica, tematica su cui avevo già avuto modo di scrivere a più riprese sin dalla prima volta in cui ne ho provata una – nel “lontano” 2016 in Svezia, quando in Italia se ne parlava ancora poco e niente.

La prima è, come ben illustrato in questo articolo di Cronache di Birra, il manifesto stilato dall’associazione di categoria Brewers of Europe in vista delle elezioni europee: tra i vari punti c’è “Incentivare l’innovazione e il consumo di prodotti a basso contenuto alcolico sostenendo politiche che incoraggino investimenti anche nei segmenti low- e no-alcohol”. Da tempo la tematica riveste un certo interesse tra i produttori, per andare ad intercettare esigenze legate a salute, benessere, o molto più banalmente al desiderio di potersi permettere una birra (auspicabilmente degna di tale nome) anche se ci si deve mettere al volante.

Una significativa diffusione ha avuto poi l’articolo di Gambero Rosso sul lancio da parte di AbInbev di Corona Cero, birra ufficiale delle Olimpiadi di Parigi 2026: mossa motivata esclusivamente da ragioni di marketing e non di tutela della salute, secondo l’autore William Pregentelli, in quanto da un lato toglie la necessità di fare attenzione ad un consumo moderato, e dall’altra fa da volano anche per le altre birre – queste invece alcoliche – del colosso da 50 miliardi di dollari l’anno e circa 500 marchi commercializzati. E non è l’unico marchio, in effetti, che negli ultimi tempi ha usato il no alcol come leva pubblicitaria.

Intanto la nota Doemens Akademie di Monaco di Baviera lancia, per l’utenza italiana, un corso sulle birre analcoliche: segnale che si ritiene che anche il mercato del Bel Paese, su cui le birre analcoliche non sono mai state particolarmente perseguite e non hanno mai avuto troppa fortuna, possa offrire opportunità in questo senso. Ricordiamo per converso che il mercato tedesco, dove la Doemens è fisicamente collocata, conta oltre 700 referenze di birra analcolica di svariati stili.

Diciamocelo: le birre analcoliche, almeno quelle presenti sul mercato italiano, in diversi casi non è che brillino. Oltretutto, le due tecniche più diffuse oggi in uso per ottenerle – il blocco della fermentazione e la dealcolazione – presentano in un caso l’inconveniente di dare sapori dolciastri, e nell’altro la sensazione di una birra troppo “scarica” – cosa che ho trovato a volte accadere anche con una terza tecnica, ossia l’utilizzo di lieviti non convenzionali che sviluppano una quantità trascurabile di alcol. Sono dunque necessarie notevoli capacità tecniche, e sicuramente ulteriore ricerca e sviluppo nel campo, per superare questi limiti (che personalmente ho trovato presentarsi anche insieme).

Insomma, verrebbe da dire: non è “birra vera”, e in molti casi è anche meno buona, perché affannarsi su questa invece di lavorare più banalmente su buone birre a bassa gradazione alcolica – e in effetti si trovano in commercio anche nel comparto artigianale delle signore birre anche 3-4 gradi?

Al netto delle questioni di marketing – che non è che siano il demonio in sé e per sé, perché è evidentemente nella natura del lavoro di un’azienda fare anche quello, l’importante è semplicemente esserne consapevoli – non posso non ribadire (come già fatto in alcuni precedenti post) alcune “bontà” di base di un prodotto senz’alcol.

La prima è appunto legata alla salute: l’alcol comunque non fa bene ed è classificato come cancerogeno, inutile negarlo, e ci sono diverse patologie, così come la gravidanza e l’allattamento, che ne controindicano in toto l’assunzione. E se è vero che “il veleno è la dose”, che l’importante è sapersi moderare, e che chi intende tutelare la propria salute o si trova in queste condizioni può benissimo bere altro, a chi è appassionato di birra avere quest’opportunità senz’altro può fare piacere. 

Idem per la questione del mettersi alla guida: è vero che le campagne per invitare a scegliere bevande analcoliche per questa ragione non è che siano state proprio dei successoni e che è meglio lavorare sul tema del consumo limitato e consapevole, però avere buone alternative – e anche socialmente accettate, mi verrebbe da aggiungere – credo possa aiutare.

Per quanto i due casi non siano totalmente sovrapponibili, pensiamo al caso delle birre senza glutine: se lì è stato ritenuto del tutto accettabile per ragioni di salute deglutinare le birre, e la tecnologia in questo senso si è sviluppata negli ultimi anni in maniera tale che ormai quasi tutti i birrifici dispongono di almeno una referenza senza glutine e generalmente di qualità non significativamente inferiore alle proprie produzioni tradizionali, perché lo stesso non dovrebbe valere per il senza alcol? È vero che l’alcol è parte stessa della natura della birra in quanto bevanda fermentata, in maniera diversa da quanto si potrebbe obiettare che il glutine è parte della natura della birra in quanto bevanda fatta con l’orzo; però mi si passi il paragone in qualche misura forzato.

Non sarà il futuro della birra – anche se secondo Global Market Insights la birra analcolica conta un giro d’affari in Europa di circa 11 miliardi di dollari, e raggiungerà i 40 nel giro di un decennio -, né me la immagino essere la prima preoccupazione dei birrai; ma credo che il tema della birra analcolica meriti comunque la sua attenzione.

Spoiler: no, non sono passata al lato oscuro, e non mi sono messa a bere birra analcolica se non durante la gravidanza. Però diciamo che, avendo dovuto fare di necessità virtù, alcune domande me le sono poste.

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Informazioni su Chiara Andreola 48 Articoli
Veneta di nascita e friulana d'adozione, dopo la scuola di giornalismo a Milano ho lavorato a Roma e Bruxelles. Approdata a Udine per amore, qui è nata la mia passione per la birra artigianale. E non smetto di coltivarla