Diciamocelo: ormai, dopo tutti questi assaggi, “ durante la mia visita a Mastro Birraio a Santa Lucia di Piave “ il mio stomaco (e il mio fegato) cominciavano a chiedere pietà.
Per cui mi è davvero dispiaciuto pensare di dover rinunciare quando sono capitata allo stand della Brasseria Alpina , birrificio di San Germano Chisone (Torino), che dal 2010 rende onore al nome nella sua produzione.
Oltre alle birre più “classiche” della linea Bohème – la chiara Saint German Ale, l’ambrata Irish Ale e la Blanche con aggiunta di cumino – dai loro fermentatori escono dei veri e propri pezzi unici, il cui comun denominatore sono le erbe alpine raccolte dai birrai stessi.
Per questo, mi ha spiegato il buon Roberto (nella foto), la maggior parte sono stagionali:
difficile trovarle sotto metri di neve, come facilmente si può immaginare.
Si va quindi dalla Berla Nera, una scura aromatizzata al polipolio – una piccola radice, ha specificato il mio interlocutore anticipando la mia domanda di fronte al mio sguardo interrogativo – alla felce e alla liquirizia; alla Lingero, una chiara doppio malto con serpillo – timo di montagna, per i non adepti – e scorze d’arancio; alla Pomme de Bière, con succo di mele biologiche fornite direttamente dagli agricoltori del territorio.
Molte di queste, peraltro, sono delle barricate: è il caso della Sottobosco al lampone, per cui vengono utilizzati – almeno così mi ha detto Roberto, crediamogli sulla parola – 50 kg di frutti per ciascuna botte, e della D’Or Dublè 2012, affinata 20 mesi in botti che contenevano uve di vvBarbaresco di Gaja.
Così come della Flora Genepi, una chiara aromatizzata – come dice il nome stesso – all’omonimo fiore; e dato che ormai aveva stuzzicato la mia curiosità oltre ogni più fervida fantasia, il buon Roberto è stato così gentile da offrirmene una bottiglia da portare a casa.
Posto che “chi beve da solo muore da solo”, l’ho aperta insieme ad Enrico.
Già all’aroma il genepì spicca da sotto la schiuma ben consistente, insieme ad un leggerissimo affumicato; e il corpo ben luppolato, perdonatemi l’eresia, mi ha ricordato molto le Ipa e la loro rosa di luppoli diversi, per quanto Ipa non sia.
La sorpresa, però, deve ancora arrivare: dopo una prima persistenza decisamente secca e amara, torna infatti a scoppio ritardato il genepì: insomma, perdonate l’entusiasmo – e giuro che Roberto non mi ha pagata -, ma è davvero una birra fatta con maestria, di facile bevuta senza essere banale.
In fondo, data la mia passione per la montagna, l’intesa tra noi (intendo le birre…) era destinata a scattare subito.
Si è poi posta la questione dell’abbinamento: in assenza di seirass, la tipica ricotta piemontese che il sito della Brasseria consiglia, abbiamo pensato di virare su un formaggio a pasta molle oppure sul San Daniele, giusto per rimanere nel locale.
Enrico però aveva voglia di cioccolato fondente, e ha messo in tavola gli ultimi resti dell’uovo di Pasqua così, tanto per togliersi lo sfizio.
Per quanto non l’avrei mai detto, si è rivelata un’idea indovinata – Roberto, aggiungi alla descrizione nel sito.
Ora sono davvero curiosa di assaggiare la novità che il birraio ha annunciato per il prossimo autunno:
una birra senza luppolo, in cui il problema della conservazione – motivo originario dell’uso di questa pianta – viene risolto da una speciale miscela di erbe alpine (mi viene da chiedermi però se potrà ancora essere chiamata “birra”, dato che la normativa attualmente in vigore, la 1354/62 e successive modifiche, ne prevede l’uso: giuristi che leggete, esprimetevi pure).
“Una bella sfida”, ha commentato.
Da parte mia, non posso che fargli i migliori auguri.